lunedì 27 luglio 2009

Mario Barbi: Perché sto con Dario

Parto dalle fine. Scelgo Franceschini. O meglio: scommetto su Franceschini perché ritengo che la sua proposta congressuale tenga viva l’opzione del partito aperto ai cittadini in una prospettiva che, riprendendo di fatto l’ispirazione coalizionale ulivista, potrà dare forma compiuta al campo del centrosinistra in un sistema politico bipolare rafforzato da una legge elettorale maggioritaria che restituisca ai cittadini la scelta degli eletti e ne confermi il potere di decidere le maggioranze di governo. E’ una scelta che non mi è personalmente facile, dopo tutte le critiche rivolte alla leadership ed alla linea politica di Veltroni, ma che faccio, mosso dalla convinzione che solo concentrando il giudizio sulle proposte dei singoli candidati (prescindendo quindi dal “sentimento” di prossimità per la compagine dei sostenitori, variegata ed eterogenea in ogni campo) sia possibile superare la tentazione della rinuncia e partecipare alla discussione con intento costruttivo. E’ dunque in questo spirito di gratuità e di amicizia verso tutti i candidati che svolgo alcune riflessioni sul Pd, augurandomi che possano essere utili non solo a spiegare la mia scelta, ma che possano anche dare anche un contributo al dibattito congressuale.
Il Partito. Forma-partito e sistema politico non sono tutto, ma rinviano in modo significativo all’idea di repubblica che abbiamo. Questo nesso, pensato come un motore riformatore, mi sembra fondamentale. Io immagino un partito al servizio delle istituzioni democratiche della repubblica e non viceversa. Non una repubblica dei partiti, ma un partito della repubblica. Un partito per una repubblica con istituzioni forti e con poteri divisi e responsabili, a partire dai poteri legislativo ed esecutivo (guarderei agli Stanti Uniti). A questo, finora, abbiamo soltanto alluso. Il Pd dovrebbe avere più coraggio. Anche per questo la scelta della forma-partito è importante. Si è parlato molto male dello statuto. Certo, è un compromesso. A suo tempo ne criticai la natura “ibrida”. Tuttavia credo che oggi quello statuto vada difeso e applicato. Non mi sento quindi di aderire a proposte che non confermino la scelta del segretario da parte degli elettori e che non considerino sufficiente l’attuale riconoscimento agli iscritti di un diritto che già li distingue dagli elettori del partito su un punto qualificante, vale a dire l’elettorato passivo. Un partito degli iscritti, chiuso agli elettori, o strumentalmente aperto, nel senso di considerarli un pubblico da mobilitare per mettere in scena forme di partecipazione guidata, è filosofia che non condivido. Il tema delle primarie è quello della partecipazione-decidente che è altra cosa della rappresentazione-partecipante. Quindi: un partito aperto, degli iscritti e degli elettori. Ma anche un partito non correntizio, adottando misure che favoriscano la coesione politica delle proposte quale potrebbe essere una norma che non autorizzi che ad un candidato siano collegate più liste. Un partito flessibile, infine, capace di aprirsi ed allargarsi anche ad altre forze, o di fare alleanze, adattando i propri comportamenti e le proprie scelte ai sistemi elettorali con i quali si è di volta in volta costretti a misurarsi: che non vuole dire condividerli né rinunciare a battersi per modificarli. Vuole dire soltanto che non è il caso di giocare a basket con una montura da football americano.
Credibilità. Il deficit di credibilità del Pd come partito di governo è drammatico ed allarmante. Tutte le rilevazioni demoscopiche ci dicono che la
destra è considerata più competente del nostro partito in tutte le questioni di maggiore rilievo per il governo del paese: dalla sicurezza all’immigrazione, dalla crisi economica alla disoccupazione. Perché? Scontiamo, credo, un doppio handicap: i. non abbiamo fatto un bilancio critico e condiviso della nostra esperienza di governo; ii. non abbiamo dato una spiegazione convincente del cortocircuito che si è creato tra costituzione del Pd, collasso dell’Unione e crisi del governo Prodi. L’idea che il governo potesse sopravvivere solo “scansando” la politica, così come quella che il partito potesse decollare solo distinguendosi dal governo hanno reso esplosiva una miscela già infiammabile che ci ha portato alla sconfitta elettorale con un campo di centrosinistra ridotto in macerie. Siamo stati giudicati non credibili come forza di governo. Una analisi equanime nel segno della verità è mancata ed è questa una delle ragioni delle difficoltà del partito e della sua crisi di credibilità. La controprova di quanto questo sia vero è a mio parere la debolezza delle proposte del partito di fronte alla crisi. Nulla impedisce al Pd di formulare proposte di rilievo, ma se ciò non avviene in modo convincente forse una parte della ragione è da ricercare nella acerba coesione programmatica che caratterizza il partito e che, ricordo per memoria, fu presente anche durante il governo dell’Unione quando le proposte divergenti che mettevano in difficoltà l’esecutivo provenivano dall’interno stesso dell’Ulivo (ds e dl) e non solo dalla cosiddetta “sinistra radicale” e dai centristi.
La crisi globale. L’inerzia e la minimizzazione sono le cifre del governo italiano nell’affrontare la crisi globale. E’ su quella crisi che dovrebbe essere dimensionata la proposta del Pd al paese. Una proposta che non può ignorarne la profondità né la specificità italiana. E’ nella diagnosi dei problemi del paese e nella risposta a questi problemi che il Pd trova la sua ragione di essere e la sua identità. Certo, in una cornice europea sarebbe meglio. Purtroppo l’Europa è cenerentola. Quella che c’è, è indispensabile. Quella che manca sembra irrealizzabile. Comunque non si può restare inerti. Ora nessuno vuole più eliminare il capitalismo, ma riformarlo sì. Quello italiano, poi! E’ una cosa che si potrebbe dire. Non è quello che sta facendo Obama, che ha affrontato la crisi con un ciclopico piano di risanamento, di trasformazione e di rilancio dell’economia americana delle dimensioni di circa la metà del Pil italiano? Non è quello che sta facendo Sarkozy che fa appello ai francesi perché la crisi sia affrontata con uno sforzo nazionale di tipo bellico e quindi progetta un grande prestito nazionale da dedicare alla costruzione del futuro? Dinanzi alla crisi globale il governo italiano è rimasto pressoché inerte. Eppure l’Italia è in condizioni assai gravi: il debito corre di nuovo verso il 120 per cento, le disuguaglianze sociali e territoriali crescono, il “grande” capitalismo privato italiano è fragile, come e più di sempre. Il Pd non dovrebbe sentire la responsablità di dire la verità al Paese e di proporre una terapia d’urto? In pochi punti, ma pesanti: misure straordinarie per la riduzione del debito; favorire - intanto con una seria diminuzione del carico fiscale e contributivo sul lavoro - una inversione di tendenza nella distribuzione della ricchezza a vantaggio del lavoro, dopo 30 anni di slittamenti a favore delle rendite e dei capitali; un piano di investimenti pubblici straordinari in istruzione, ricerca e infrastrutture. Poi le famiglie, la natalità, l’immigrazione di qualità… Ma queste proposte bisogna elaborarle e bisogna crederci. Bisogna che siano fatte proprie dal partito e che con convinzione diventino il progetto proposto dal Pd agli italiani. L’Italia non può continuare a scaricare i problemi sul futuro, rinviando di giorno in giorno e di anno in anno il momento in cui prendere di petto i problemi di fondo. Uno sforzo programmatico straordinario, con sedi di elaborazione, discussione e deliberazione adeguate, è la condizione necessaria, ancorché non sufficiente, perché il partito recuperi la credibilità perduta come forza di governo e come forza a cui gli italiani tornino a guardare con fiducia per avere una risposta ai problemi che li assillano. Si parta quindi dalle esperienze dei governi di centrosinistra, se ne faccia un bilancio, se ne individuino i limiti e se ne traggano gli insegnamenti del caso. Si rifletta sul rapporto tra misure adottate e programmi realizzati. Si rifletta sulla cultura amministrativa e sulla pubblica amministrazione. Spesso il governo italiano (indipendentemente da chi lo guida) è come un motore che gira al massimo, produce norme e decisioni in quantità (nonostante quello che si dice sulla lentezza del processo legislativo), ma la spinta non arriva alle ruote perché la frizione slitta e quindi il motore gira a vuoto. Questo della “frizione” che slitta sarebbe un tema maiuscolo. Mi rendo conto che queste sono questioni che vanno oltre questo congresso, ma si può intanto cominciare ad impostarle.
Vocazione ulivista. Non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che il Pd si consideri la forza centrale e determinante del campo di centrosinistra e che in quanto tale punti a costruire intorno a sé un’alleanza alternativa alla destra, in grado di conquistare la maggioranza degli elettori e di proporre il proprio leader alla guida del governo. E’ così che io interpreto la “vocazione maggioritaria” del Pd, locuzione sommamente equivoca che andrebbe utilmente soppressa dal vocabolario del partito. Perché delle due l’una: o la vocazione maggioritaria è un’ovvietà o è una velleità. Ovvietà se significa che il Pd si concepisce come la forza maggiore del centrosinistra e che punta a conquistare la maggioranza tenendo conto delle condizioni date dalla legge elettorale vigente e quindi formando una coalizione programmaticamente coesa (che è anche quello che si cercò di fare nel 2006). Invece, nel suo primo scorcio di vita, il Pd ha praticato la “vocazione maggioritaria” in modo velleitario, sopravvalutando la propria forza, ignorando i vincoli della legge elettorale, alludendo all’autosufficienza e perseguendo lo spericolato progetto di distinguere la propria sorte da quella del governo e della coalizione. Il risultato di questa strategia di “discontinuità” e “nuova stagione” è stata la sconfitta dell’aprile 2008. Vorrei dirlo senza animosità: in una gara a due, arrivare secondi è una sconfitta e non è una mezza vittoria. Ho sempre sostenuto che il Pd si sarebbe avvantaggiato da una lotta aperta per il governo e per la coalizione perché, anche quando il governo fosse caduto, il Pd avrebbe potuto presentarsi agli elettori con l’orgoglio dello sforzo compiuto ed insieme agli alleati che avessero voluto continuare a concorrere al governo anziché cercare una scorciatoia che non poteva non apparire agli elettori come una “diserzione” ed una “fuga dalla responsabilità”. E’ quello lo “spirito del lingotto” che non solo non rimpiango ma che ritengo debba essere consapevolmente superato e abbandonato. Il Pd ha pagato questa linea e sta tuttora pagando per non avere affrontato in modo autocritico le conseguenze di questa linea. Questo l’ho sempre detto. Ora vorrei aggiungere, per senso di equilibrio, che la responsabilità di quanto accaduto non fu però soltanto della costituenda leadership del Pd. A favorire il cortocircuito ci fu anche un deficit politico nel governo, del quale facevano parte con ruoli determinanti le più eminenti personalità del partito. Vocazione maggioritaria non può dunque considerasi alternativa ad alleanza, ma va intesa come “guida ulivista” alle alleanze. Nel senso che la coalizione deve reggersi su due requisiti: i.un forte patto politico e programmatico (che la renda tendenzialmente irreversibile); ii. unità davanti agli elettori che decidono il governo. Per dirla in chiaro: il prezzo di un’eventuale alleanza politica nazionale con l’Udc non può essere lo scambio della strategia bipolare e maggioritaria con quella proporzionale e multipolare. Sarebbe interesse esistenziale del Pd, di un Pd che si consideri partito “aperto”, in grado di “essere” tendenzialmente l’intera coalizione, fare ogni sforzo per un sistema elettorale maggioritario con collegio uninominale ad uno o due turni.
Andare avanti. Si dice, non tornare indietro. Condivido. Non è nel segno della nostalgia che costruiremo il futuro. Ma per non tornare indietro bisogno andare avanti e per andare avanti bisogna riconoscere, per non ripeterli, gli errori del passato. C’è un errore capitale che non dobbiamo ripetere: concepire le primarie costituenti del Pd come un plebiscito, cioè avere fatto le primarie senza crederci. Tantissimi – quasi tutti - sono stati bravissimi a nascondersi dietro Veltroni, a lasciarlo andare avanti e poi a lasciarlo solo, a dissentire tacitamente e a non sfidarlo apertamente, preferendo dare vita, a fianco ad un vertice formalmente onnipotente, a correnti stra-potenti e lasciando convivere concezioni diverse del partito, del sistema politico e dell’asse programmatico su cui caratterizzare il Pd. Quindi, eccoci di nuovo al punto di partenza. No, non si tratta di “fondare” ora il Pd. Il Pd è già stato fondato. Si tratta di confermare quella scelta o di revocarla. Si tratta di fare scelte rinviate e negate. Si tratta di cambiare metodo. Si tratta di cominciare ad ascoltarsi. Si tratta di superare la cultura unanimistica che nasconde le differenze con patti opachi anziché assumerle come fondamento dialogico della esistenza del partito, base della coesione che nasce dall’ascolto e dalla sintesi.
Personale. In questi due anni di battaglie minoritarie aspre e anche di rotture dolorose ho dovuto decidere se accettare la politica anche come rinuncia e compromesso nella logica di scegliere la minore distanza o ciò che è meno lontano dal bene. In qualche modo, vale anche per il partito. E qui torno alla scelta dichiarata all’inizio. Con un’aggiunta. Dovendo scegliere tra un partito i cui tratti distintivi siano la creatività e la libertà ed uno in cui l’accento sia posto sulla disciplina e l’obbedienza, francamente sceglierei il primo. Insomma, vorrei continuare ad essere libero e a dire quello che penso, augurandomi che il Pd, nel suo modo di essere, sappia contraddire l’analisi spietata di Simone Weil (1909-43), che in un tempo tragico e lontano, ancorchè non remoto, definì i partiti politici “organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”. Programma ambizioso, mi rendo conto. Ma vale la pena di provarci.

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