A sinistra lo si agita come spettro anti democratico: militanti del centrodestra potrebbero infiltrarsi tra gli elettori delle primarie e falsare il risultato di domenica. Fantasospetti. Eppure il Popolo della libertà un suo candidato ce l’ha, e si chiama Pierluigi Bersani. Se partecipassero anche loro alla scelta del nuovo segretario del Pd, gli elettori di Silvio Berlusconi metterebbero la croce sul nome dell’ex ministro piacentino. Preferiscono il suo volto scavato al faccino più giovane e meno esperto di Dario Franceschini, danno fiducia alla solida parlata emiliana più che allo stridulo accento ferrarese. Meglio un vecchio comunista duro e puro che un vecchio democristiano pronto a sfrecciare sui binari delle convergenze parallele. Quanto a Ignazio Marino, gli basti l’onore delle armi.
Prendiamo la parola chiave della campagna elettorale per le primarie: la «sinistra». Il termine che ora univa ora divideva, quella che uno come Francesco Rutelli non voleva neppure sentire nominare. «Se il Pd accetta di essere sistematicamente qualificato come “la sinistra”, più ancora che bollito, è fritto», scriveva su Europa, perché è sinonimo di «irrevocabile collocazione in minoranza nella società italiana». Per l’ex leader della Margherita, la sinistra è eresia. Per Bersani invece è un patrimonio che comprende Il capitale di Marx e le Lettere dal carcere di Gramsci, un pantheon con Lenin, Stalin, Mao, Che ...
Guevara, Turati, Berlinguer. Condivisibile o no, comunque chiaro.
E Franceschini? Il segretario ha rivelato quest’estate al Corriere della Sera che per lui «sinistra è una parola e una storia nobilissima cui sono anche legato». Perché, ha confessato, «da ragazzo ero nella sinistra dc con Zaccagnini». Ecco la sua sinistra. «Ricordo convegni in cui si discuteva se considerarci sinistra della Dc o sinistra nella Dc». Capirai.
I leader del centrodestra sfoderano fair play. Nessuno si è pronunciato apertamente pro o contro l’uno o l’altro. Ma il tifo lo fanno, eccome. E quello che piace di Bersani al Pdl in fondo è semplice: si sa come la pensa e che non cambierà idea. È un osso duro, ma serio e affidabile. Il centrodestra preferisce lui a Franceschini anche se l’attuale segretario propone un modello di partito più vicino al Pdl, più un movimento di opinione che una struttura di tesseramento, con gli elettori che contano più degli iscritti (nel Pdl i gazebo, nel Pd le primarie), una forte impronta del leader, la propensione al sistema maggioritario e al bipartitismo.
Viceversa, l’ex presidente dell’Emilia Romagna rilancia un partito di tessere e sezioni, che vuole fare coalizione con l’Udc, che ragiona più nella logica del bipolarismo, poco propenso all’alternativa secca del maggioritario e più favorevole al modello proporzionale tedesco. Una specie di «labour» italiano, una sorta di socialdemocrazia europea in salsa tricolore.
Insomma, Bersani è un avversario scomodo, ostico, scorbutico. Farà di tutto per riprendersi gli elettori della sinistra più dura che si sono spostati verso Rifondazione ma anche quegli operai e ceti popolari che si sono orientati verso la Lega. Va a braccetto con Vincenzo Visco nel centro studi Nens (Nuova economia nuova società). Nonostante tutto questo, meglio lui come interlocutore che l’erede di Walter Veltroni. Meglio il pragmatismo di Bersani che la sloganistica di Franceschini, meglio la vecchia scuola di partito che il movimentismo imprevedibile.
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